Capitolo XXV

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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"Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato  in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata:  - monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita  non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s'ha a che fare con certa gente,  con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potrebbe guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla..."

CHI?

Agnese

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli").

DOVE?

Il castello dell'innominato

illustrazione originale di Francesco Gonin del 1840

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È l'inespugnabile fortezza in cui vive e opera l'innominato, situata in un punto imprecisato lungo il confine tra il Milanese e il Bergamasco e distante non più di sette miglia dal palazzotto di don Rodrigo: il luogo è descritto all'inizio del cap. XX, quando il signorotto vi si reca per chiedere l'aiuto del potente bandito nel rapimento di Lucia e fin dall'inizio si presenta come un castello truce e sinistro, specchio fedele della personalità del signore che vi risiede. Infatti sorge in cima a un'erta collina al centro di una valle "angusta e uggiosa" che è a cavallo del confine dei due stati, accessibile solo attraverso un sentiero tortuoso che si inerpica verso l'alto e che è dominato dagli occupanti del castello, che sono dunque al riparo dall'assalto di qualunque nemico; il castello è come un nido di aquile in cui l'innominato non ha nessuno al di sopra di sé e da dove può dominare anche fisicamente su tutto il territorio circostante, di cui egli è considerato l'assoluto padrone (i pochi birri che si sono avventurati lì sono stati uccisi e nessuno oserebbe addentrarvisi senza essere amico del bandito).

All'inizio del sentiero che conduce in alto c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna che mostra un sole splendente, è nota come la Malanotte e in cui stazionano bravi dell'innominato armati fino ai denti: qui si ferma don Rodrigo quando giunge insieme ai suoi sgherri e viene precisato che nessuno può salire al castello armato, per cui il signorotto deve consegnare ai bravi il suo schioppo. In seguito viene accompagnato all'interno della fortezza e percorre una serie di oscuri corridoi, con bravi di guardia ad ogni stanza e varie armi appese alle pareti (moschetti, sciabole, armi da taglio...), mentre la sala in cui avviene l'incontro con l'innominato non presenta dettagli rilevanti, cosa che può dirsi anche per altri "interni" che appariranno nei successivi episodi.

Dopo il rapimento (XX) Lucia è condotta da Monza al castello in carrozza (il viaggio dura più di quattro ore) e una volta che il veicolo è giunto ai piedi del sentiero che sale alla fortezza, di fronte alla Malanotte, esso non può proseguire a causa dell'erta ripida e la giovane è trasferita su di una portantina insieme alla vecchia serva dell'innominato. Questa conduce poi Lucia nella sua stanza (XXI), cui si accede tramite una "scaletta" e dove poco dopo giunge anche l'innominato; la stanza è spoglia e non presenta alcuna descrizione particolare, così come la camera in cui dorme il bandito e che viene mostrata dopo, della quale si dice solo che ha una finestra che si affaccia sul lato destro del castello, verso lo sbocco della valle (da lì l'uomo vede la gente che accorre dal cardinal Borromeo, giunto in visita pastorale al vicino paesetto che non dev'essere troppo lontano da quello dei due promessi, dal momento che fra i curati presenti c'è anche don Abbondio).

Questi percorre in seguito la salita al castello in groppa a una mula, insieme all'innominato e a una lettiga che trasporta la moglie del sarto del paese, con il compito di rincuorare Lucia nel momento in cui verrà liberata (XXIII): una volta giunti alla fortezza i due sono fatti entrare e apprendiamo che vi sono due cortili, uno più esterno e un altro interno. Sulla strada del ritorno il curato osserva con una certa apprensione lo strapiombo del dirupo che è costretto a rasentare e maledice la mula in quanto procede sul ciglio del burrone, tirando infine il fiato solo quando è fuori da quella valle dalla fama sinistra (XXIV).

Lo stesso don Abbondio, Agnese e Perpetua torneranno lì molti mesi dopo, per cercare rifugio nel castello a causa della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, durante la guerra di Mantova (XXIX): l'innominato ha già raccolto al castello molti uomini e ha disposto armati e posti di guardia in vari punti della valle, cosicché il luogo è perfettamente difeso. I tre giungono alla Malanotte a bordo di un baroccio procurato dal sarto (XXX) e qui trovano un folto gruppo di armati, quindi procedono a piedi lungo la salita e Agnese rabbrividisce al pensiero che la figlia ha percorso quella stessa strada prigioniera dei bravi. Vengono accolti benevolmente dall'innominato che offre loro ospitalità e le donne vengono sistemate in un quartiere a parte, che occupa tre lati del cortile più interno del castello (nella parte posteriore dell'edificio, a strapiombo su un precipizio); il corpo centrale che unisce il cortile interno a quello esterno è occupato da masserizie e provviste, mentre nel quartiere destinato agli uomini ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a occuparne una. Lui e le due donne si trattengono al castello "ventitré o ventiquattro giorni", quindi, nel momento in cui il pericolo dei lanzichenecchi è cessato, l'innominato li accompagna di persona alla Malanotte dove fa trovare una carrozza, e questa li porta poi al loro paese. È questa l'ultima apparizione dell'innominato nel romanzo e lo stesso può dirsi anche del suo castello.

Il luogo è stato giustamente interpretato come un riflesso "simbolico" dell'indole del suo signore, che vive nella sua solitudine asserragliato su un'alta montagna e rende il proprio maniero inaccessibile a chiunque non voglia fare avvicinare: tale è la condizione dell'innominato sino al ravvedimento, poi è lui stesso a scendere dall'altura per incontrare il cardinale e giungere alla conversione, per cui il castello è in certo qual modo immagine dell'isolamento del peccato che l'uomo spezza andando a parlare con il Borromeo. Data l'identificazione tra il personaggio manzoniano e la figura storica di Francesco Bernardino Visconti, si pensa che il suo castello fosse quello i cui resti sorgono ancora nella cittadina di Vercurago, sulla strada che un tempo collegava Bergamo a Lecco (rimangono in piedi un torrione e parte della cinta muraria).

QUANDO?

Novembre-dicembre 1628

RIASSUNTO

Vista la situazione, don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il Cardinale. Quest’ultimo viene così accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del Cardinale in persona, il quale finalmente chiede a don Abbondio il perché non abbia voluto celebrare le nozze dei due giovani.

TEMI PRINCIPALI TRATTATI NEL CAPITOLO

Il capitolo è il primo di un "trittico" (formato anche dai capp. XXVI-XXVII) che funge da raccordo con l'ultima parte del romanzo, introdotta dall'affresco storico della carestia e della successiva calata del Lanzichenecchi (capp. XXVIII-XXX) e poi dallo scoppio della peste nel Milanese (capp. XXXI-XXXII). Nella prima parte dell'episodio è narrato il ritorno di Lucia e Agnese al paese, in concomitanza con la visita pastorale del cardinal Borromeo e in preparazione della nuova separazione delle due donne, poiché Lucia si recherà poi a Milano; la seconda parte è occupata dal colloquio del cardinale con don Abbondio, che viene rimproverato dal superiore per le sue mancanze (il confronto tra i due si completerà all'inizio del capitolo seguente).

All'inizio del capitolo don Rodrigo lascia il paese per recarsi a Milano, irritato degli sviluppi imprevisti della vicenda e per evitare di dover omaggiare il cardinale: non riapparirà più nelle vicende del romanzo, sino all'inizio del cap. XXXIII quando si scoprirà ammalato di peste. La sua partenza è ironicamente paragonata dall'autore a quella di Catilina da Roma, similitudine in cui è evidente la sproporzione tra i due personaggi (così come risulta chiara anche la differente levatura morale del signorotto e dell'innominato, il potente bandito che si è ravveduto delle sue scelleratezze).

L'arrivo del cardinale al paese è descritto come un evento festoso, con l'accorrere disordinato di tutti gli abitanti intorno al corteo del prelato e l'accalcarsi del popolo attorno alla sua portantina: l'autore riproduce una scena che secondo i documenti storici dell'epoca si ripeteva regolarmente in occasione delle visite pastorali del Borromeo e lui stesso cita l'episodio del suo primo ingresso in duomo a Milano, quando rischiò di essere schiacciato dalla folla.

Fanno la loro apparizione nel romanzo don Ferrante e donna Prassede, i due nobili milanesi che ospiteranno Lucia nella loro casa per tutta l'ultima parte della vicenda: del primo ci verrà fornito un ironico ritratto nel cap. XXVII, mentre della nobildonna ci viene detto subito che si sente in dovere di "fare del bene" a tutti per puntiglio personale, spesso in maniera grottesca e inopportuna (lo si vedrà anche con Lucia, quando tenterà di toglierle dalla testa Renzo finendo per alimentare nella giovane la nostalgia e il ricordo del suo innamorato). La ragazza resterà nella loro casa sino allo scoppio dell'epidemia di peste e Renzo la cercherà lì in occasione del suo ritorno a Milano (cap. XXXIV).

Nell'ultima parte del capitolo è descritto il confronto tra don Abbondio e il cardinal Borromeo, che lo rimprovera aspramente per aver mancato il suo dovere non celebrando il matrimonio di Renzo e Lucia: nel confronto è evidente la sproporzione tra il curato, individuo egoista e meschino che pensa solo alla propria vita e ai suoi interessi, e il prelato, animato da una fede vivissima e con un altissimo concetto della missione sacerdotale (sul punto si veda oltre). Il cardinale usa un linguaggio elevato e solenne, ricco di citazioni scritturali, cui fanno comicamente da contrappunto gli "a parte" di don Abbondio che tra sé trova incomprensibile tanto zelo per "gli amori di due giovani", mentre era in gioco la vita di un "povero sacerdote" (il colloquio viene interrotto alla fine del capitolo in un'atmosfera di attesa e sospensione, per essere ripreso all'inizio del successivo).

TRAMA

La notizia della liberazione di Lucia si sparge nel territorio di Lecco. Don Rodrigo lascia il paese e va a Milano. Il cardinal Borromeo si reca in visita al paese dei due promessi e chiede a don Abbondio notizie di Renzo. Donna Prassede incontra Lucia e Agnese, proponendo di accogliere la ragazza in casa sua. Le due donne tornano al paese e parlano col cardinale. Borromeo parla con don Abbondio e gli chiede conto del mancato matrimonio, rimproverandolo per non aver adempiuto ai suoi doveri.

GLOSSARIO

Apologia: autodifesa

Borracina: muschio

Buona nuova: Vangelo

Chi pratichi: chi frequenti

Darne parte: comunicarlo

Distinti: punteggiati

Esibizione: offerta

Fare il bravo: fare lo spavaldo

Impattarla: pareggiarla

Pendoni: festoni

Pontificato: episcopato

Rivista: rassegna

Rodio: rodimento

Rotti: lasciati in sospeso

S'esibì: si offrì

Stili: antenne di legno

Uggioso: annoiato

Verecondia: pudore, timidezza

DOMANDE SULLA COMPRENSIONE DEL CAPITOLO:

1) Quando si diffonde la notizia della liberazione di Lucia come reagisce il popolo del territorio di Lecco nei confronti del «signor podestà», di Azzecca garbugli e di don Rodrigo? Come si comportano? Riassumi.
2) Come trascorre Lucia il suo tempo nella «casuccia ospitale del sarto»? Quali sono i suoi propositi per l’avvenire? Una breve frase sintetizza il suo atteggiamento spirituale.
3) Riassumi con le tue parole il passo che parla del carattere di donna Prassede («era donna Prassede... tutte in una volta») e cerca poco più avanti una frase che sintetizza tale carattere.
4) Riassumi in modo ordinato gli argomenti che don Abbondio porta al cardinale Borromeo per giustificare il suo rifiuto al matrimonio (anche capitolo XXVI).
5) Copia la prima (capitolo XXV) e la seconda (capitolo XVI) similitudine che il Manzoni inventa per indicare i successivi atteggiamenti di don Abbondio durante il colloquio col cardinale Borromeo.



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